venerdì 6 luglio 2007

LA NOTTE IN CUI HO SCOPERTO IL BOSS: IL MIO TRIBUTO A BRUCE SPRINGSTEEN


Eccomi lì, tredicenne, con gli occhi sbarrati, intento ad ascoltare “Senza averti qui” degli 883come se fosse una specie di mantra adolescenziale utile a calmare il folle desiderio di soffiare Gi*****, la più carina della classe, a quel tesoro sciropposo e pieno di grana che era il bel fusto eroe e capitano della squadra di basket. Sognavo ad occhi aperti di portarla da Frullallà* a bere il frappè di fragole della signora Patty. E baciarla sino a consumarci le labbra.ZZZRRRIIIPP!! Il suono del lettore cd che si era impallato mi strappò da quel momento di tenerezza.Il ragazzo di mia cugina, più grande di me di dieci anni, sul punto di commettere un omicidio, stufo di sentire “Sei un mito” prese prontamente il cd e lo scaraventò con violenza nell’abisso di disordine della mia stanza.<<>> sibilò, <<>> Io sedevo lì profondamente inferocito come solo gli adolescenti sanno essere, tornando alla realtà.Lui afferrò un disco dalla sua collezione e lo mise su: <<>>”Ok, stronzo”, pensai “mettilo su sentiamo”.La musica iniziò – Chitarra, basso, batteria e un imbecille in pena che canta “Baby questa città è una trappola mortale, un inno al suicidio”.”Merda” pensai “questa è musica per fighette.” La canzone proseguì “…dobbiamo uscirne, finché siamo giovani, perché i vagabondi come noi, Baby, sono nati per correre…”Le parole cominciarono a riempire la casa; non si sentiva roba del genere alla radio e mano a mano che la melodia si diffondeva cominciavo ad abituarmi. CAZZO! e mi piaceva pure. Era un suono a cui non avevo mai prestato attenzione prima, a causa della mia innata paura per Woodstock & Co.Non me ne fregava niente di Terry, di una dolce e infuocata estate, di un lento sulla spiaggia di Stocktong Wing!Avevo bisogno di spazio da riempire, di chitarre distorte, feedback e parole. PAROLE con un significato, SUONI con un significato!!Mi ritrovai a rovistare, a scavare selvaggiamente nella collezione di dischi di M., il ragazzo di mia cugina, come fosse un tesoro appena raggiunto, una scoperta monumentale che nessuno soprattutto tra i miei coetanei poteva conoscere o capire.Ascoltai di tutto: Bob Dylan, Mozart, Brahms. TUTTO QUANTO!! Non ne avevo mai abbastanza. Ero diventato una specie di tossicodipendente e soprattutto una spina nel fianco di M.Volevo sapere tutto quello che aveva fatto, imparare tutto ciò che non sapeva quello schifoso borghese appassionato solo di basket (il bel fusto!). Mi preparavo a corteggiare quella stupenda ragazza, anziché ai tavolini di una gelateria, in pieno sole, nel paesaggio notturno dei miei sogni di adolescente.Così iniziò la mia ascesa (o discesa) nell’abisso dell’apprendimento alternativo.Un giorno M. mi diede un cd che sarebbe diventato la mia colonna sonora, che mi sarebbe entrato in testa, mi avrebbe logorato come un cancro al cervello.Il titolo “Born to run” la diceva lunga. Il disco racconta di come si sta bene in nessun posto. Una perfetta esibizione di rabbia, frustrazione dolore e gioia..All’epoca avevo circa quindici anni e la ragazza stava svanendo dai miei sogni.Non avevo più bisogno di lei.Volevo uscire nel mondo, vedere, fare e muovermi.Avevo bisogno di vagabondare quando e dove volevo!Non volevo tornare a casa – a cinquant’anni – alle 17.37 del pomeriggio. accarezzare il cane, sedermi davanti a bistecca e insalata a guardare il mio programma preferito a Milano o chissà quale altro ombelico dell’universo.Una bella vita sicuramente… ma sapevo che non mi apparteneva: questo grazie al ragazzo di mia cugina e a quell’italo-americano (la mamma, Adele Zerilli è siciliana) di nome Bruce Springsteen.Avevo trovato gli insegnanti (di lì a poco mi sarei imbattuto in un libro dal titolo “Sulla strada” di un tale Kerouac ) e la colonna sonora per la mia vita.

L'ESSENZA DELL'ASSENZIO : TORNA IL LIQUORE MALEDETTO


"L’alchimia liquida che addormenta la lingua, infiamma il cervello, scalda lo stomaco e trasforma le idee”. Così Hernest Hemingway descriveva l’assenzio. Il liquore verde brillante che fu fonte di ispirazione dei poeti maledetti e protagonista, discusso, delle notti bohemiennes parigine di fine Ottocento.
Dopo essere stata messa al bando in mezza Europa, la magica bevanda torna a deliziare i “maledetti” del nuovo millennio.
ALLUCINAZIONI, visioni multicolor, eccitazione, “uno stato di splendida follia” a dar retta a Rimbaud, che sotto l’influsso dell’elisir scrisse le sue opere più celebrate come “Una stagione all’inferno”: sono gli effetti del liquido tratto da una pianta (l’Artemisia Absinthium) che ispirarono i versi dei poeti e le acrobazie cromatiche degli artisti.
Degas, Gaugin, Toulose-Lautrec, Manet, Van Gogh (che sotto il suo influsso si mutilò un orecchio*), Picasso (cui dedicò “Il bicchiere d’assenzio” nel 1911) ne erano consumatori accaniti.
Oscar Wilde scriveva: “Un bicchiere d’assenzio… non c’è niente di più poetico al mondo. Che differenza c’è tra un bicchiere d’assenzio e un tramonto?”
Fu così che la bevanda diventò mito.
Prima simbolo dell’arte bohemienne di fine Ottocento, poi del Decadentismo del Novecento, quando entrò in clandestinità per le sue proprietà tossiche.
A riportare in vita la Fata Verde è bastato qualche segnale lanciato dall’immaginario cinematografico. In “La Vera Storia di Jack lo Squartatore” Johnny Depp, nei panni dell’investigatore Fred Abberline, ricorre alle visioni oniriche dell’assenzio per scovare il serial killer.
Tra gli ammiratori di oggi, i Bluvertigo, che gli hanno dedicato il brano presentato a Sanremo, e lo scrittore Andrea Pinketts ( “L’assenza dell’assenzio” appunto).
Bere l’assenzio è quasi un arte; e la preparazione un rito. Fondamentali le dosi: una parte di assenzio e cinque di acqua. Si mette il liquore nel bicchiere, su un cucchiaino forato (a ponte), si adagia una zolletta di zucchero sulla quale si versa qualche goccia del liquore e la si ‘brucia’. La bevanda assume un colore chiaro.
Nel secolo scorso si aggiungeva il laudano, un antidolorifico per animali, oggi fuorilegge.

*Van Gogh si mutilò un orecchio in seguito ad un litigio con l’amico Gaugin… Chissà che non sia stata una bevuta eccessiva di assenzio a scaldare gli animi?

JACK KEROUAC: STORIA DI UN POVERO DIAVOLO (O ANGELO?)


La prima volta che ‘incontrai’ Jack Kerouac fu un pomeriggio di diversi anni fa…

Mi aggiravo tra gli scaffali di una libreria che vendeva roba usata dietro casa: stavo cercando il solito libro appioppato per le vacanze dai Professori (di cui non ricordo neanche un titolo). Prima di allora non Lo avevo mai sentito nominare – tantomeno a scuola. (gli insegnamenti di Maestri come Lui, Corso, Ginsberg e Borroughs non si trovano in nessuna scuola che io conosca).
Gettai per caso l’ occhio sull’ immagine di una copertina consumata dal tempo e da qualche mano desiderosa di vagabondare macchiata di non so cosa. Niente di particolare, soltanto una Pontiac distrutta e cartelli stradali. Il titolo – “On the Road” – mi incuriosì… Così incominciai furtivamente a leggerne le prime pagine: “Jack Kerouac nasce a Lowell, una cittadina industriale del Massachussets il 12 marzo 1922…” niente di speciale (pensai). A colpirmi fu il rapporto della Marina Militare che costò il congedo anticipato all’ allora 21enne aspirante scrittore. Si parla di forti tendenze schizoidi, abuso di alcool, idee suicide, eccessiva inclinazione alla masturbazione… si… avete capito bene… eccessiva.
Insomma: chi era questo tipo strambo dal cognome francese quasi impronunciabile per la mia lingua di adolescente? E soprattutto cosa voleva da me? Sembrava come se l’ anima dello scrittore fosse imprigionata nel libro… come se Kerouac mi chiedesse di portarlo con me per un ultimo viaggio.

Henry Miller disse di Lui: “Jack Kerouac ha violentato a tal punto la nostra amata prosa che essa non potrà mai più rifarsi una verginità”.
Aveva ragione. La sua scrittura è intensa, chiama le cose con il loro nome e si ferma all’ essenziale; non cerca la suggestione né l’ effetto emotivo particolare.
Fino ad allora le mie uniche letture ‘impegnate’ erano state “La fattoria degli animali” di George Orwell e una biografia di Kurt Cobain. Così il libro passò dagli scaffali impolverati della libreria alle mie avide mani. Ero un adolescente che si affacciava al sesso: stavo perdendo la mia verginità. Da allora “On the Road” ha cambiato il mio modo di vedere le cose.

Negli anni 50/60 Kerouac fu eroe emblematico di quella “Beat Generation” alla quale ha dato il nome; l’ aggettivo “beat” vuol dire sì battuto, sconfitto, emarginato, ma più di ogni altra cosa vuol dire ‘beat-itudine’, che proprio Lui ha cercato per tutta la vita senza mai trovarla, e di cui, invece, Dean Moriarty (al secolo Neal Cassady) protagonista del romanzo pare maestro.

Kerouac si fece portavoce dei sogni di due e più generazioni; sogni di ribellione, sogni di viaggi, ma soprattutto sogni di fuga da quella società ormai degradata dal consumismo… lo stesso consumismo di cui oggi Jack Kerouac è vittima: più mitizzato che conosciuto! alla stregua di “Che” Guevara, Einstein, Marilyn Monroe e la “Gioconda”. Già perché quando un’ immagine viene riprodotta migliaia di volte, diventando riconoscibile a tutti, entra nel mito: pensate ad Andy Warhol che ha reso ”icona sacra” un barattolo di fagioli!!! Dunque non c’ è da stupirsi se oggi Kerouac ha “battezzato” centinaia di bar e “venduto” milioni di Levi’ s. L’ apice lo ha raggiunto il ‘solito’ Johnny Depp (non me ne voglia) che ha sborsato 10mila dollari per un Suo impermeabile!!! Roba da pazzi!!!

Non ho ancora capito chi fosse Jack Kerouac e forse non lo capirò mai. Ma cosa potrebbero dirvi - ancora - professori, saccenti, biografi (qualsiasi riferimento a Fernanda Pivano è puramente casuale…) su questo angelo (o diavolo?) che una volta camminava tra noi, anche se, forse, ad un passo da terra?



Ps: Jack Kerouac – nato nel 1922 a Lowell – è morto nel 1969, in Florida, di cirrosi epatica.