venerdì 29 febbraio 2008

Gregory Crewdson ... l'occhio di Lynch!!!








Gegory Crewdson "Untitled". Dalla serie "Twilight", 1998-2002
Courtesy of the artists and Luhring Augustine, New York



"Untitled/senza titolo"... Non c’è una foto che abbia il titolo.

Quando Gregory Crewdson , adolescente incazzato di Brooklyn, aspirante musicista, con una valigia piena di sogni di rock’n roll fondò la band "The Speedies" non avrebbe mai immaginato che la canzone "Let Me Take Your Photo" sarebbe stata profetica per quello che lui sarebbe diventato nella sua vita.

Dopo un viaggio originale e immaginifico attraverso la ri-scoperta dei capolavori di Stanley Kubrick e l’espressionismo astratto di Mark Rothko, il Palazzo Delle Esposizioni, spazio di cultura e suggestioni propone la mostra fotografica dell’artista americano che voleva diventare una rock star ( dal 19 dicembre 2007 al 2 marzo 2008).

Un viaggio senza fermate che attraverso i suoi scatti ci proietta nell’America suburbana condita da riferimenti a film e miti di Hollywood : le produzioni hollywoodiane (spesso indicatrici accurate dello stato emotivo del paese) , ed i film di David Lynch e Steven Spielberg hanno influito particolarmente sulla sua opera.

Le sue immagini hanno qualcosa di speciale. Guardandole, infatti, si ha la sensazione di osservare la scena di un film, con la differenza che quello che abbiamo sotto gli occhi sarà l’unico fotogramma che vedremo. Il fotogramma di un mondo apparentemente idilliaco come in un sogno cinematografico inquietante, pervaso di oscurità e mistero. Sulla scia del saggio sul perturbante di Freud (“Das Unheimliche”), Crewdson riesce a creare mondi fotografici complessi e particolareggiati, in cui l'iconografia del paesaggio e dell'America suburbana appaiono come metafore delle nevrosi, delle ansie e dei desideri del fotografo stesso, specchi di una società intenta a confrontarsi con gli abissi della propria coscienza collettiva. Una società ipnotizzata, alienata da se stessa quanto dalla fragile realtà in cui si aggira come sonnambula.

sabato 23 febbraio 2008

TIM BURTON- INDAGINE SU UN REGISTA AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO

Di Luca Imperiale

Ci sono autori che, trovando forte ispirazione in un universo proprio e inattaccabile dall’esterno, costruiscono percorsi inconsueti che riconducono sempre, anche quando cambia il luogo, il tempo e lo spazio della narrazione, alla suggestione originaria che li ha innescati.

Del genio di Tim Burton, del suo iperbolico mondo onirico cantato con folle malinconia e vibrante fantasia, possiamo trovare tracce evidenti già nei due corti – uno, in realtà, è un mediometraggio – che lo hanno imposto all’attenzione del magico mondo della settima arte: Vincent e Frankenweenie. Due piccoli gioielli che si diversificano per durata (il primo cinque, il secondo venticinque minuti) e per tecnica di narrazione visiva, ma che trovano comunanza nel sintetizzare i motivi immaginifici e letterari della poetica cinematografia del regista californiano. Vincent è il padre di tutti i meravigliosi, agrodolci, quasi titanici personaggi burtoniani; è colui che comincia idealmente a portare con sé i semi che hanno alimentato lo sbocciare di Edward, il giovane dalle mani di forbice. Edward è la storia di quelle sensibilità che finiscono per essere distrutte, dopo troppe ferite; di quelle anime che forse non hanno soltanto qualcosa di umano, e devono fuggire gli uomini per poter respirare e nella solitudine essere, esistere e creare;

Tim Burton è un regista dalla straordinaria sensibilità nei confronti del “diverso”: a voler stabilire un parallelismo con un artista italiano, la corrispondenza più autentica può riconoscersi nello spirito delle opere di Tiziano Sclavi, creatore di Dylan Dog. Naturalmente e felicemente inclini al gotico, sono artisti capaci di intuire, riconoscere e rappresentare la poesia e la dolcezza del “mostro”.

Così il regista “al di sopra di ogni sospetto”, negli anni, come un moderno Peter Pan ci ha preso per mano e ci ha portato nella sua isola che non c’è :che parte dal surreale, wildiano e stravagante “Beetlejuice”, spettrale commedia nella quale sono i fantasmi ad avere ospiti fino ad arrivare a “La sposa cadavere” pellicola che rasenta altezze di poesia ed incanto difficilmente superabili. Una storia magnifica, agrodolce e malinconica, come si conviene al grande cineasta, calata in un contesto fuori dal tempo e donata al pubblico attraverso protagonisti di plastilina incarnanti attori reali.

E’ come se, come ho già scritto mesi fa in occasione del Leone d’oro alla carriera conquistato a Venezia, questo tenebroso punk geniale e fortunato, prendesse la mano dello spettatore e rinnovasse una promessa che suona grossomodo così: «Con questa mano dissipo i tuoi affanni. Il tuo calice non sarà mai vuoto, perché io sarò il tuo vino. Con questa candela illuminerò il tuo cammino nelle tenebre. Con questo anello ti chiedo di essere mio». A noi non resta che dire di sì e sperare, ardentemente, che questo amore vero non abbia mai fine.